D’estate
a Milano fa caldissimo. D’inverno si gela. Le stagioni di mezzo
sono solo una brutta copia di queste altre. Ogni giorno di ogni
stagione il Duomo è sempre lo stesso. Ma per lui è facile, perché
è solo una costruzione su una piazza piena di turisti e piccioni.
Vicino al Duomo c’è qualcos’altro che non cambia mai. Di fianco
al Duomo, in un’altra Piazza, piccola e senza piccioni, c’è un
pazzo. Questo pazzo è sempre uguale, ogni giorno e ogni stagione e
se ne sta sempre fermo al solito posto. Se ne sta in mezzo alla
Piazza, tra il verde curato dallo sponsor di turno. Questo pazzo sta
seduto immobile in mezzo a tutto quel verde, ma è un pazzo tutto
grigio. Ha capelli e barba grigia e una giacca grigia sgualcita. Se
ne sta tutto il giorno lì, freddo o caldo, sole o pioggia, seduto
immobile. La sua postura è strana. Sembra abbia la testa incassata
dentro al tronco. Ha una posizione innaturale. Se qualche curioso o
qualche anziana signora gli si avvicina, il pazzo dice di essere una
lapide. Nessuno ha ancora capito se lo dica per fare scena o perché
ci crede. Così questo pazzo passa le sue giornate immobile in mezzo
a quel pezzettino verde a fingersi una lapide. Nessuno lo ha mai
visto lasciare la sua postazione e a chi gli si rivolge dice soltanto
di essere una lapide. Nient’altro. La polizia ha provato tante di
quelle volte a spostarlo, ma questo pazzo è stranamente pesante.
Alcuni dicono che a forza di star lì si è incastrato con delle
radici. Per altri a forza di credersi una lapide è diventato pesante
come il marmo. Così i tentativi della polizia di spostarlo sono
stati tutti inutili. Anche quelli di zittirlo. Lui riesce a starseno
sempre lì, immobile, e ripetere che è una lapide. Non si sa
nient’altro. C’è una volante con quattro sbirri fissi in quella
piazza a controllarlo. È il turno più ambito dagli sbirri, perché
non si fa mai niente. L’unico gesto che si compie è allontanare i
curiosi dal pazzo. Anche se il pazzo non è pericoloso, perché non
si muove e dice solo poche parole. Dice che è una lapide. Altro
compito degli sbirri è quello di fare i vaghi se gli si chiede cosa
significhi questa storia della lapide. Ciascuna pattuglia ha la sua
fantasiosa versione. Per alcuni al pazzo deve essere morto un caro,
magari vicino a quella piazza. Per altri è solo un drogato che ci è
rimasto sotto con qualche viaggio. Per i più poetici è un fallito
che si sente morto dentro. Tutti sanno che nessuna di queste tesi è
vera, ma nessuno sa perché quel pazzo passi la sua vita in mezzo ad
un piazza a fingersi una lapide. Il pazzo non collabora. È ambiguo,
dà tutto per scontato. Dice solo che è una lapide. Se gli si chiede
di chi dice che è banale, che è una cosa ovvia. Dice, me ne sto qui
in questa piazza ogni giorno di chi volete che sia? Dice che è in
quella piazza e non in un’altra mica per il verde, mica perché è
vicina ai negozi del centro. Se si insiste con le domande il pazzo si
scoccia. Dice che non si può essere così ignoranti e che lui è una
lapide, mica un libro di storia. E non parla più. Così, col tempo,
sempre meno curiosi vanno a parlargli. Le poche persone interessate
si accontentano dei racconti della polizia, senza accorgersi che
cambiano ogni volta. Sempre meno gente si ferma a parlare col pazzo,
quasi nessuno gli fa più domande. Pochissimi ormai escono da quella
piazza ponendosi qualche domanda. Tutti si accontentano di ridere del
pazzo, di fargli una foto, di chiedere agli sbirri di raccontargli
qualche aneddoto sul pazzo. Ma non è mai successo nulla di curioso.
All’inizio la gente si interessava, chiedeva e se ne andava piena
di domande e voglia di capire o piena di fantasie e storie in testa.
Poi la gente ha iniziato a credere agli sbirri, a ridere, a trattarlo
come una curiosità turistica. Come un pezzo di folklore da
fotografare. Oggi però sta accadendo l’inevitabile, l’ultima
sconfitta di quel pazzo. Oggi la gente non lo nota neanche più. Non
lo vedono anche se è lì, grigio in mezzo al verde. Nessuno fa più
domande. Nessuno ci pensa più. Si sono tutti dimenticati di lui. In
Piazza Fontana ora regna il silenzio.
lunedì 26 marzo 2012
mercoledì 21 marzo 2012
Il Mondo Sospeso delle Amazzoni
Camminando per le strade era circondata
da figure a lei simili. Ovunque, attorno a lei, regnavano cartelloni
con giganti che riproducevano un corpo come il suo. Ogni donna su
ogni cartellone le sorrideva e si scopriva i seni, i fianchi, i
glutei, orgogliosa del suo corpo femminile. Si sentiva quasi
schiacciata da tutti quegli sguardi. Tutti quei corpi perfetti di
donna che le si mostravano. Ogni uomo che passava vicino quelle
figure ne rimaneva calamitato. Un’attrazione alla quale non si
poteva sottrarre. Distoglieva lo sguardo dal volante, non ascoltava
la telefonata, smetteva di controllare dove il cane facesse i suoi
bisogni, spostava lo sguardo dai suoi figli a quelle gigantesse
vittoriose. Lei camminava e osservava ogni donna che le sorrideva e
ogni uomo innamorato di ciascuna di loro. Allo stesso modo si
comportava il resto la città. La vita divenne più lenta, più
tranquilla. Le passeggiate erano contemplative e i semafori rossi
bene accetti. Tutti camminavano con il naso rivolto verso l’alto,
verso i cartelloni. Le donne avevano conquistato il mondo. Tornò a
casa che si sentiva un’altra, si sentiva fiera di sé stessa. In
cucina, mentre tagliava le zucchine, accese la tv. Anche lì le donne
erano ovunque. Non c’era un solo uomo senza una donna al suo
fianco. Senza una bellissima donna che mostrava con fierezza le sue
grazie. Nessun uomo era autonomo nelle schermo. Non c’era una
trasmissione che non rendesse giustizia alla perfezione delle forme
femminili. Fissò incantata la luce del televisore. Ne era come
posseduta. Si sentiva nuovamente fiera. Quando andò davanti allo
specchio si rese conto che non esaltava abbastanza la sua
femminilità. Quei pantaloni e quella camicia non le rendevano
giustizia. Uscì a fare shopping. Varcò la soglia di casa e si
ritrovò in quel mondo dal naso in sù, in contemplazione della
bellezza delle donne. Totalmente schiacciato dal loro potere. Avevano
conquistato il mondo. Quando tornò a casa corse in camera e si
infilò i vestiti nuovi. Vestiti da donna vera, da donna che dà
ordini, da donna che comanda sugli uomini. Minigonna, maglia scollata
e tacchi. Ora anche lei poteva mostrare la fierezza del suo sesso.
Cenò che si sentiva un’altra. Finalmente era il capo della sua
stessa vita e non più la schiava dei maschi. Sghignazzò mentre
scolava la pasta. Aveva conquistato il mondo. Era il capo. Guardò la
pasta. La fissò a lungo. Intanto pensava. La pasta è piena di
carboidrati. I carboidrati fanno ingrassare. Un fisico grasso è
privo di autorità sull’uomo. Gettò la pasta nella spazzatura e
prese una carota dal frigo. Quando andò a dormire, dopo aver visto a
lungo la televisione, era ancora più orgogliosa di prima.
Puntò la sveglia un po’ prima del solito per darsi il tempo di scegliere con cura i vestiti. Dopo aver trovato l’angolazione perfetta della scollatura uscì di casa. A testa alta. Mentre era in macchina osservava prima i cartelloni e poi il suo volto nello specchietto. C’era qualcosa che non andava. Non capiva cosa. Entrò in ufficio immersa nei suoi pensieri ed ebbe fin da subito i suoi risultati. Tutti erano catturati dal suo nuovo stile. Tutti la guardavano e la ascoltavano e facevano ciò che lei diceva loro. Finalmente poteva mostrare a tutti di essere fiera di essere donna e di essere conscia del suo potere. Ostentando la sua femminilità stava dimostrando al mondo di essere all’altezza di chiunque altro. In mensa mangiò un po’ di insalata.
Tornò a casa fissando i cartelloni assieme a tutti gli altri automobilisti e ai pedoni. Fu sulla soglia di casa che capì cosa le mancava.
La mattina dopo decise di fare il passo successivo. Cercò la sua vecchia trousse di trucchi, quella che non usava più da tempo. Gli occhi. Anche gli occhi erano un fattore importantissimo di comando. Si truccò pesantemente gli occhi. Così truccato il suo volto era ancora più somigliante a quelli dei cartelloni. Il suo sguardo era ancora più magnetico. Sarebbe stata sicuramente rispettata e ammirata da tutti. Si vestì con cura e andò al lavoro. In macchina continuava a sbadigliare, per prendersi il tempo necessario per viso e capelli si era dovuta svegliare molto prima del solito. Ma non aveva importanza, ormai era anche lei un’amazzone nel mondo, una gigantessa pronta a far carriera. Era il capo.
Da quando aveva preso questa nuova consapevolezza della sua femminilità le cose erano andate decisamente meglio. Gli uomini al lavoro le davano retta, le facevano un sacco di favori e la invitavano spesso a cena. Quando uscì con i primi si fece portare fuori in posti carini. Durante le cene parlava tantissimo, ma notò che non veniva ascoltata. Notò anche che appena messo piede fuori dal ristorante i suoi cavalieri non guardavano più lei, ma le figure sui cartelloni. Le gigantesse. Le vincitrici. Doveva mancarle ancora qualcosa.
Controllava che il suo peso calasse quotidianamente e si iscrisse in palestra. Uscì con molti uomini, ma il problema persisteva. Durante la cena non la ascoltavano e una volta fuori non guardavano più lei ma le donne sui cartelloni. In più ogni volta che nel ristorante c’era una donna con più scollatura o con un seno particolarmente grosso, guardavano lei. Non poteva sopportarlo.
Anzitutto, per dimostrare che era lei il capo, che era lei che decideva cosa fare, che era lei che dettava gli ordini iniziò a non parlare più. Poco dopo non si fece neanche più invitare a cena. Non esisteva non essere ascoltata. Doveva essere lei a decidere di non parlare. Nessuno poteva non ascoltarla. Lei stava conquistando il mondo assieme ad ogni altra donna.
In seguito decise di rifarsi il seno. Se era quella l’unità di misura del potere, era il momento di intervenire per aumentarlo. Per diventare più forte. Per diventare il capo. I risultati non tardarono ad arrivare.
Ma nonostante tutto i cartelloni avevano ancora la meglio su di lei. Non capiva. Si era truccata, era dimagrita, era andata in palestra, si era rifatta il seno, lisciata i capelli, aveva rivoluzionato il suo guardaroba. Cosa mancava ancora?
Poi capì. Guardò meglio quei cartelloni, la pelle di quelle donne, le loro perfezioni. Quelle donne non erano umane. Tutte quelle bellissime donne erano passate per un computer.
Così quella sera si fece una foto, la caricò sul computer e aprì un programma per modificarla. Lisciò la sua pelle, cancellò ogni imperfezione, snellì i fianchi e arrotondò i seni. E rinacque dea. Lei stessa era rinchiusa nello schermo e si fissava vittoriosa. Era perfetta, era esattamente come voleva essere. Così sì che avrebbe dominato il mondo. Così genuinamente e perfettamente donna. Mise la foto in rete, perché tutti potessero guardarla e innamorarsene e subirne il fascino. Quando andò a letto espresse un desiderio, voleva diventare così.
Si svegliò che la città era piccola sotto i suoi piedi, si svegliò che tutti i nasi erano puntati su di lei e la sua perfezione. Ogni uomo interrompeva ciò che stava facendo, ogni uomo si distraeva per alzare il naso e guardarla. Il suo cartellone era in una posizione centralissima. Nel suo immobilismo monumentale lei osservava il suo potere prendere possesso dei pensieri altrui. Dall’alto lei era finalmente perfetta. Rinchiusa in quella stampa lei era il capo e tutto il mondo era ai suoi piedi. Le donne avevano finalmente vinto.
Puntò la sveglia un po’ prima del solito per darsi il tempo di scegliere con cura i vestiti. Dopo aver trovato l’angolazione perfetta della scollatura uscì di casa. A testa alta. Mentre era in macchina osservava prima i cartelloni e poi il suo volto nello specchietto. C’era qualcosa che non andava. Non capiva cosa. Entrò in ufficio immersa nei suoi pensieri ed ebbe fin da subito i suoi risultati. Tutti erano catturati dal suo nuovo stile. Tutti la guardavano e la ascoltavano e facevano ciò che lei diceva loro. Finalmente poteva mostrare a tutti di essere fiera di essere donna e di essere conscia del suo potere. Ostentando la sua femminilità stava dimostrando al mondo di essere all’altezza di chiunque altro. In mensa mangiò un po’ di insalata.
Tornò a casa fissando i cartelloni assieme a tutti gli altri automobilisti e ai pedoni. Fu sulla soglia di casa che capì cosa le mancava.
La mattina dopo decise di fare il passo successivo. Cercò la sua vecchia trousse di trucchi, quella che non usava più da tempo. Gli occhi. Anche gli occhi erano un fattore importantissimo di comando. Si truccò pesantemente gli occhi. Così truccato il suo volto era ancora più somigliante a quelli dei cartelloni. Il suo sguardo era ancora più magnetico. Sarebbe stata sicuramente rispettata e ammirata da tutti. Si vestì con cura e andò al lavoro. In macchina continuava a sbadigliare, per prendersi il tempo necessario per viso e capelli si era dovuta svegliare molto prima del solito. Ma non aveva importanza, ormai era anche lei un’amazzone nel mondo, una gigantessa pronta a far carriera. Era il capo.
Da quando aveva preso questa nuova consapevolezza della sua femminilità le cose erano andate decisamente meglio. Gli uomini al lavoro le davano retta, le facevano un sacco di favori e la invitavano spesso a cena. Quando uscì con i primi si fece portare fuori in posti carini. Durante le cene parlava tantissimo, ma notò che non veniva ascoltata. Notò anche che appena messo piede fuori dal ristorante i suoi cavalieri non guardavano più lei, ma le figure sui cartelloni. Le gigantesse. Le vincitrici. Doveva mancarle ancora qualcosa.
Controllava che il suo peso calasse quotidianamente e si iscrisse in palestra. Uscì con molti uomini, ma il problema persisteva. Durante la cena non la ascoltavano e una volta fuori non guardavano più lei ma le donne sui cartelloni. In più ogni volta che nel ristorante c’era una donna con più scollatura o con un seno particolarmente grosso, guardavano lei. Non poteva sopportarlo.
Anzitutto, per dimostrare che era lei il capo, che era lei che decideva cosa fare, che era lei che dettava gli ordini iniziò a non parlare più. Poco dopo non si fece neanche più invitare a cena. Non esisteva non essere ascoltata. Doveva essere lei a decidere di non parlare. Nessuno poteva non ascoltarla. Lei stava conquistando il mondo assieme ad ogni altra donna.
In seguito decise di rifarsi il seno. Se era quella l’unità di misura del potere, era il momento di intervenire per aumentarlo. Per diventare più forte. Per diventare il capo. I risultati non tardarono ad arrivare.
Ma nonostante tutto i cartelloni avevano ancora la meglio su di lei. Non capiva. Si era truccata, era dimagrita, era andata in palestra, si era rifatta il seno, lisciata i capelli, aveva rivoluzionato il suo guardaroba. Cosa mancava ancora?
Poi capì. Guardò meglio quei cartelloni, la pelle di quelle donne, le loro perfezioni. Quelle donne non erano umane. Tutte quelle bellissime donne erano passate per un computer.
Così quella sera si fece una foto, la caricò sul computer e aprì un programma per modificarla. Lisciò la sua pelle, cancellò ogni imperfezione, snellì i fianchi e arrotondò i seni. E rinacque dea. Lei stessa era rinchiusa nello schermo e si fissava vittoriosa. Era perfetta, era esattamente come voleva essere. Così sì che avrebbe dominato il mondo. Così genuinamente e perfettamente donna. Mise la foto in rete, perché tutti potessero guardarla e innamorarsene e subirne il fascino. Quando andò a letto espresse un desiderio, voleva diventare così.
Si svegliò che la città era piccola sotto i suoi piedi, si svegliò che tutti i nasi erano puntati su di lei e la sua perfezione. Ogni uomo interrompeva ciò che stava facendo, ogni uomo si distraeva per alzare il naso e guardarla. Il suo cartellone era in una posizione centralissima. Nel suo immobilismo monumentale lei osservava il suo potere prendere possesso dei pensieri altrui. Dall’alto lei era finalmente perfetta. Rinchiusa in quella stampa lei era il capo e tutto il mondo era ai suoi piedi. Le donne avevano finalmente vinto.
Cristina Spinetti ©
domenica 18 marzo 2012
Chi ben comincia..
Iniziamo subito con una cosa che mi imbarazza tantissimo: le mie poesie e il rapporto ambiguo che ho con loro (non capisco se mi piacciono o se mi fan cagare).
Ve ne posto tre, e lo faccio solo per festeggiare il fatto che sono tutte pubblicate in tre raccolte diverse.
L'anno scorso ho partecipato a una serie di concorsi di poesia trovati in internet, grazie ai quali queste tre poesie hanno provato l'ebrezza del foglio di carta perdendo la loro virtualità.
Le posto in ordine dalla più vecchia alla più recente.
1. Piove
su "Poesie del Nuovo Millennio vol. 8" della Aletti Editore
Ve ne posto tre, e lo faccio solo per festeggiare il fatto che sono tutte pubblicate in tre raccolte diverse.
L'anno scorso ho partecipato a una serie di concorsi di poesia trovati in internet, grazie ai quali queste tre poesie hanno provato l'ebrezza del foglio di carta perdendo la loro virtualità.
Le posto in ordine dalla più vecchia alla più recente.
1. Piove
su "Poesie del Nuovo Millennio vol. 8" della Aletti Editore
Piove sull’asfalto che separa le
nostre giornate
Mentre ci moltiplichiamo in ogni goccia
Ti cerco ma sei ovunque
Sono talmente satura di te che non
riesco a raggiungerti
Piove e l’asfalto si fa scivoloso
Forse cadremo in una pozza grigia
Dove si riflettono i nostri palazzi
vuoti
Piove sulle strade asfaltate dai nostri
sogni
Mentre provo a raccogliere le gocce per
liberarti
Ma rimani incastrato in ogni cristallo
di pioggia
Come nei miei pensieri
Piove piccole gocce fredde che
nascondono la tua immagine
E ad ogni tonfo nell’asfalto
Ti infrangi per rinascere
Mentre io resto sola in mezzo alla
pioggia
Inzuppata dalla tua presenza
2. Nella Nebbia
su "Il Suono del Silenzio 2011" di TA.TI. Edizioni
Continuiamo a camminare
Anche se la nebbia è sempre più fitta
Non riesco più a vedere le tue mani
Davanti a noi una distesa bianca come
il nostro futuro
Così vicino
Quanto impossibile
Solo i nostri occhi e poi più niente
Nebbia fredda
E la sua umidità che ci entra nelle
narici
Fino ai polmoni
Se ti parlassi scriverei le parole col
mio fiato
E le vedresti disperdersi in tutto
questo bianco
E’ come se il cielo di Milano sia
sceso
Per ricordarci che siamo tutti in
ostaggio
Siamo prigionieri di un’altra guerra
Oltre questa nebbia
3. La Libertà
su "La Libertà" di poesiaèrivoluzione
Un giorno ho aperto gli occhi e ho
iniziato a correre
Ho corso per miglia e miglia
lasciandomi ogni città alle spalle
Ora dormo in mezzo a un deserto rosso
E per la prima volta vedo il cielo
sulla mia testa
Quel giorno avevi gli occhi freddi come
le finestre della nostra stanza
Ti ho lasciato in mezzo a una strada
vuota
Tra i capannoni industriali che
sputavano cemento
Fra noi due solo le loro grida
metalliche
Dove sono ora non ci sono rumori
Troverai ancora qualcuno come me
Qualche isolato dopo casa tua
In una stanza fredda
Grigia e consumata
Dove sono ora non avresti più quel
grigio in fondo agli occhi
Perché saremmo solo io e te
sabato 17 marzo 2012
Era una notte buia e tempestosa..
.. quando ho deciso di ricominciare questo blog da zero. Non funzionava affatto così com'era, era noioso e inutile (visto che il progetto che avevo iniziato a postare capitolo per capitolo è attualmente congelato in una cartella che sta dentro un'altra cartella dal nome "Scarti").
Così ho deciso di ricominciarlo, sperando di fare un lavoro migliore e di guadagnarmi anche qualche lettore. Perché, come già scrissi, uno scritto senza lettori è solo una cosa triste.
Magari comincio pure a usare il corsivo e il grassetto (no, il grassetto no).
Vi avverto quindi che mi impegno da oggi a postare sempre qualcosa (non sarò mai brava come Spugna, perché non sono così produttiva purtroppo, ma farò del mio meglio).
Mi sono resa conto che sono piena di cose interessanti che meriterebbero di vedere l'accecante luce del web.
Apre quindi, di nuovo, i battenti il mio piccolo blog dove verrano postati racconti, poesie e testi di vario genere in maniera assolutamente casuale.
In arrivo domani il primo racconto!
Spero apprezzerete (e leggerete).
Cri
Così ho deciso di ricominciarlo, sperando di fare un lavoro migliore e di guadagnarmi anche qualche lettore. Perché, come già scrissi, uno scritto senza lettori è solo una cosa triste.
Magari comincio pure a usare il corsivo e il grassetto (no, il grassetto no).
Vi avverto quindi che mi impegno da oggi a postare sempre qualcosa (non sarò mai brava come Spugna, perché non sono così produttiva purtroppo, ma farò del mio meglio).
Mi sono resa conto che sono piena di cose interessanti che meriterebbero di vedere l'accecante luce del web.
Apre quindi, di nuovo, i battenti il mio piccolo blog dove verrano postati racconti, poesie e testi di vario genere in maniera assolutamente casuale.
In arrivo domani il primo racconto!
Spero apprezzerete (e leggerete).
Cri
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